sabato 16 novembre 2019

il cammino della santità


LA SANTITÀ COME UN CAMMINO
Mi accingo a fare come il montaggio di un film per la conclusione di questi due giorni, insieme di tasselli montati ad arte. Quello del santo è un cammino di Grazia, Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità, dice il Papa al n° 15 dell'Esortazione, citando altrove anche san Francesco e san Bonaventura, e questo cammino è come un film o come un'istallazione di arte contemporanea. Un film mistico dedicato a un viaggio, come il To The Wonder di Terrence Malick.

Gli occhi del santo
Il santo deve camminare e deve avere innanzitutto occhi capaci di cogliere i segni sparsi dinanzi a lui, dalla creazione in poi. Secondo il disegno di Dio, il creato stesso è un sacramento. Nel suo Itinerarium, san Bonaventura indica il libro scritto da fuori, appunto il creato, da inziare a leggere, per poi leggere il libro scritto da dentro che è l’anima con il suo desiderio, e infine il libro scritto da dentro e da fuori, cioè Cristo Crocifisso in cui ci si rivela la Trinità. Nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia, Giacomo Leopardi fa dire al pastore che è il suo alter ego: «E quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l'aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono?”». La domanda primordiale che incomincia il cammino della ricerca di Dio, scaturisce dallo sguardo pieno di meraviglia sul creato. Nella Napoli, ove Leopardi è vissuto, nel Presepe c'è un personaggio essenziale che è l'Incantato, un pastore con gli occhi stupefatti rivolti al cielo. Così, chi cammina nella santità deve avere occhi incantati e il cuore colmo, anzi ardente di desiderio di Dio. Lo esprime in modo paradigmatico sant’Agostino nelle prime righe delle Confessioni: «Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te». Il desiderio è il segno più autentico inscritto nel nostro cuore del nostro essere chiamati all’unione con Dio. Con riferimento al profeta Daniele, Tommaso da Celano biografo di Francesco d’Assisi, definsice il santo vir desideriorum. Un desiderio ardente dovrebbe essere un imprescindibile criterio di discernimento verso coloro che si sentono chiamati alla vita consavcrata. “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). Questo ardore è ciò che muove il santo nel suo cammino.

I piedi del santo
Egli ha bisogno anche di piedi per continuare a camminare nelle difficoltà. Il deserto è luogo della purificazione, in cui si è chiamati a contemplare il misterium iniquitatis anche nella stessa Chiesa senza perdere l'orientamento e soprattutto la capacità di amare. Madre Teresa di Calcutta, citata dall’Esortazione, si è sentita chiamata ad entrare nel silenzio e nel buio dello spirito e grazie a tale purificazione ha diffuso la luce del Vangelo anche oltre l’ambito cattolico: Come, Be My Light, è il titolo eloquente della sua biografia.

Gli orecchi del santo
Inoltre, il santo ha bisogno di orecchi per ascoltare. Per ascoltare anzitutto il Signore che parla, e poi per ascoltare i fratelli, in modo attivo, poiché talora nei più piccoli parla lo Spirito Santo, come insegna san Benedetto nella Regola.

La bocca del santo
È importante anche la bocca, che non è fatta solo per insegnare o predicare ma soprattutto per sorridere, salutare, facendo attenzione anche alle piccole cose, – come ha notato il filosofo Aby Warburg – «Dio abita nei dettagli». Tra le ipsissima verba di Francesco d’Assisi fuori dai suoi Scritti c’è la breve sentenza «Dio è cortesia», in quanto ogni giorno Dio saluta col sole o con la pioggia, tanto quelli che ricambieranno e ringrazieranno, quanto quelli che ignoreranno i suoi benefici. Papa Benedetto a Lourdes si è soffermato sul sorriso di Maria, che, nelle prime apparizioni, prima di iniziare a parlare, ha semplicemente rivolto il suo sorriso a Bernadette.

Le mani e le ginocchia del santo
Il santo ha poi bisogno di mani e di ginocchia per pregare, per operare e amare Dio nei fratelli. Affido tale messaggio ad un’antica fiaba russa, quella del quarto dei Re Magi. Egli veniva dall’Asia settentrionale, ed era il più gentile e generoso dei suoi compagni. Per il re che desiderava onorare, aveva predisposto in dono tessuti di lino purissimo, miele estratto dai fiori della sua steppa e perle pescate dalle acque limpide dei suoi fiumi. Ma nel recarsi a Gerusalemme, incontrò un gruppo di lebbrosi. Spinto a compassione, donò loro i tessuti di lino perché potessero applicarli sulla loro pelle e placare un po’ il tormento della malattia, e si trattenne un anno per assisterli. Ripreso il cammino, incontrò un contadino poverissimo, che non aveva nulla da far mangiare ai suoi bambini. Commosso, gli donò il miele, e si trattenne un altro anno per aiutarlo a coltivare il suo terreno ingrato. Riprese il cammino, ed incontrò un villaggio di miserabili. Donò loro le perle perché potessero risollevarsi, e si trattenne ancora un anno per insegnar loro il buon governo della comunità.
Riprese quindi il cammino. Ma erano passati tre anni. Aveva ormai mancato l’appuntamento con i suoi tre compagni. Non aveva più doni per onorare il re che dovevano incontrare. Aveva perso di vista la stella e si sentiva come noi quando smarriamo la certezza dei riferimenti e la speranza nella nostra vita. In quel mentre, il pianto di una donna gli attraversò gli orecchi e il cuore. «Perché piangi, donna?». «Perché mio figlio, l’unico, è stato rinchiuso in carcere, in quanto per la nostra povertà non abbiamo rifuso il debito all’usuraio. E dovrà rimanere in carcere trent’anni. Che sarà di lui e di me?». «Come è possibile aiutarti, donna?». «Soltanto se qualcuno si sostituisse a mio figlio, io potrei riaverlo». «Lo farò io, avrai tuo figlio». Il figlio, come risorto, fu restituito alla madre, ed il re rimase in prigione trent’anni. Trascorso il tempo, il re fu liberato.
Era ormai un’altra persona. Consumato dalle privazioni, era invecchiato e la febbre lo divorava. Tuttavia, sebbene fossero passati trentatrè anni, il suo primo pensiero era sempre a Gerusalemme e al re che doveva onorare. Con le poche forze che gli rimanevano, si incamminò verso Gerusalemme. Giunto alle porte della città santa, si informò: «È qui il re dei Giudei?». «Non abbiamo nessun re che Cesare, qui», gli fu risposto, «ma c’è un poveretto che oggi è stato condannato a morte perché ha detto di essere il re dei giudei. Lo vedi? È quello lì, sulla croce». Il re fissò lo sguardo su colui che pendeva dalla croce. E lo riconobbe. Era di lui che era partito alla ricerca, trentatrè anni prima. Si avvicinò al crocifisso e gli parlò: «Mio re! Perdonami. Sarei dovuto essere qui trentatrè anni fa… E non ho più nulla da donarti…». Il crocifisso gli rispose: «Non temere, servo buono e fedele. I tuoi compagni mi hanno adorato, ma poi sono andati via. Tu invece in questi trentatrè anni sei sempre stato con me, e nei poveri e nei sofferenti che hai servito e onorato, hai servito e onorato me. Oggi stesso, ti dico, sarai con me in paradiso».
Questo racconto ricapitola tutto quanto detto in questi giorni sul cammino di santità che ha bisogno appunto di occhi, cuore, orecchi, bocca, mani, piedi e ginocchia per pregare, adorare il Signore e per amare gli altri. Come ha insegnato don Tonino Bello negli ultimi momenti della sua vita, «questo è il sale della vita: amare. Amare la gente, i poveri specialmente. E Gesù Cristo. Il resto non conta nulla».