LA SANTITÀ COME UN CAMMINO
Mi accingo a fare come il montaggio di un film per la
conclusione di questi due giorni, insieme di tasselli montati ad arte. Quello
del santo è un cammino di Grazia, Lascia che la grazia del tuo Battesimo
fruttifichi in un cammino di santità, dice il Papa al n° 15
dell'Esortazione, citando altrove anche san Francesco e san Bonaventura, e
questo cammino è come un film o come un'istallazione di arte contemporanea. Un
film mistico dedicato a un viaggio, come il To
The Wonder di Terrence Malick.
Gli occhi del santo
Il santo deve camminare e deve avere innanzitutto
occhi capaci di cogliere i segni sparsi dinanzi a lui, dalla creazione in poi.
Secondo il disegno di Dio, il creato stesso è un sacramento. Nel suo Itinerarium, san Bonaventura indica il
libro scritto da fuori, appunto il creato, da inziare a leggere, per poi
leggere il libro scritto da dentro che è l’anima con il suo desiderio, e infine
il libro scritto da dentro e da fuori, cioè Cristo Crocifisso in cui ci si
rivela la Trinità. Nel Canto notturno di
un pastore errante per l’Asia, Giacomo Leopardi fa dire al pastore che è il
suo alter ego: «E quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me
pensando: / a che tante facelle? / Che fa l'aria infinita, e quel profondo / infinito
seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono?”». La
domanda primordiale che incomincia il cammino della ricerca di Dio, scaturisce
dallo sguardo pieno di meraviglia sul creato. Nella Napoli, ove Leopardi è
vissuto, nel Presepe c'è un personaggio essenziale che è l'Incantato, un
pastore con gli occhi stupefatti rivolti al cielo. Così, chi cammina nella
santità deve avere occhi incantati e il cuore colmo, anzi ardente di desiderio
di Dio. Lo esprime in modo paradigmatico sant’Agostino nelle prime righe delle Confessioni: «Fecisti nos ad Te, et
inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te». Il desiderio è il segno
più autentico inscritto nel nostro cuore del nostro essere chiamati all’unione
con Dio. Con riferimento al profeta Daniele, Tommaso da Celano biografo di
Francesco d’Assisi, definsice il santo vir desideriorum. Un desiderio
ardente dovrebbe essere un imprescindibile criterio di discernimento verso coloro
che si sentono chiamati alla vita consavcrata. “Non ci ardeva forse il cuore
nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le
Scritture?” (Lc 24,32). Questo
ardore è ciò che muove il santo nel suo cammino.
I piedi del santo
Egli ha bisogno anche di piedi per continuare a
camminare nelle difficoltà. Il deserto è luogo della purificazione, in cui si è
chiamati a contemplare il misterium iniquitatis anche nella stessa
Chiesa senza perdere l'orientamento e soprattutto la capacità di amare. Madre
Teresa di Calcutta, citata dall’Esortazione, si è sentita chiamata ad entrare
nel silenzio e nel buio dello spirito e grazie a tale purificazione ha diffuso
la luce del Vangelo anche oltre l’ambito cattolico: Come, Be My Light, è il titolo eloquente della sua biografia.
Gli orecchi del santo
Inoltre, il santo ha bisogno di orecchi per ascoltare.
Per ascoltare anzitutto il Signore che parla, e poi per ascoltare i fratelli,
in modo attivo, poiché talora nei più piccoli parla lo Spirito Santo, come
insegna san Benedetto nella Regola.
La bocca del santo
È importante anche la bocca, che non è fatta solo per
insegnare o predicare ma soprattutto per sorridere, salutare, facendo
attenzione anche alle piccole cose, – come ha notato il filosofo Aby Warburg –
«Dio abita nei dettagli». Tra le ipsissima verba di Francesco d’Assisi fuori
dai suoi Scritti c’è la breve sentenza «Dio è cortesia», in quanto ogni giorno
Dio saluta col sole o con la pioggia, tanto quelli che ricambieranno e
ringrazieranno, quanto quelli che ignoreranno i suoi benefici. Papa Benedetto a
Lourdes si è soffermato sul sorriso di Maria, che, nelle prime apparizioni,
prima di iniziare a parlare, ha semplicemente rivolto il suo sorriso a
Bernadette.
Le mani e le ginocchia del santo
Il santo ha poi bisogno di mani e di ginocchia per
pregare, per operare e amare Dio nei fratelli. Affido tale messaggio ad
un’antica fiaba russa, quella del quarto dei Re Magi. Egli veniva dall’Asia
settentrionale, ed era il più gentile e generoso dei suoi compagni. Per il re
che desiderava onorare, aveva predisposto in dono tessuti di lino purissimo,
miele estratto dai fiori della sua steppa e perle pescate dalle acque limpide
dei suoi fiumi. Ma nel recarsi a Gerusalemme, incontrò un gruppo di lebbrosi.
Spinto a compassione, donò loro i tessuti di lino perché potessero applicarli
sulla loro pelle e placare un po’ il tormento della malattia, e si trattenne un
anno per assisterli. Ripreso il cammino, incontrò un contadino poverissimo, che
non aveva nulla da far mangiare ai suoi bambini. Commosso, gli donò il miele, e
si trattenne un altro anno per aiutarlo a coltivare il suo terreno ingrato.
Riprese il cammino, ed incontrò un villaggio di miserabili. Donò loro le perle
perché potessero risollevarsi, e si trattenne ancora un anno per insegnar loro
il buon governo della comunità.
Riprese quindi il cammino. Ma erano passati tre anni.
Aveva ormai mancato l’appuntamento con i suoi tre compagni. Non aveva più doni
per onorare il re che dovevano incontrare. Aveva perso di vista la stella e si
sentiva come noi quando smarriamo la certezza dei riferimenti e la speranza
nella nostra vita. In quel mentre, il pianto di una donna gli attraversò gli
orecchi e il cuore. «Perché piangi, donna?». «Perché mio figlio, l’unico, è
stato rinchiuso in carcere, in quanto per la nostra povertà non abbiamo rifuso
il debito all’usuraio. E dovrà rimanere in carcere trent’anni. Che sarà di lui
e di me?». «Come è possibile aiutarti, donna?». «Soltanto se qualcuno si
sostituisse a mio figlio, io potrei riaverlo». «Lo farò io, avrai tuo figlio».
Il figlio, come risorto, fu restituito alla madre, ed il re rimase in prigione
trent’anni. Trascorso il tempo, il re fu liberato.
Era ormai un’altra persona. Consumato dalle
privazioni, era invecchiato e la febbre lo divorava. Tuttavia, sebbene fossero
passati trentatrè anni, il suo primo pensiero era sempre a Gerusalemme e al re
che doveva onorare. Con le poche forze che gli rimanevano, si incamminò verso
Gerusalemme. Giunto alle porte della città santa, si informò: «È qui il re dei
Giudei?». «Non abbiamo nessun re che Cesare, qui», gli fu risposto, «ma c’è un
poveretto che oggi è stato condannato a morte perché ha detto di essere il re
dei giudei. Lo vedi? È quello lì, sulla croce». Il re fissò lo sguardo su colui
che pendeva dalla croce. E lo riconobbe. Era di lui che era partito alla
ricerca, trentatrè anni prima. Si avvicinò al crocifisso e gli parlò: «Mio re!
Perdonami. Sarei dovuto essere qui trentatrè anni fa… E non ho più nulla da
donarti…». Il crocifisso gli rispose: «Non temere, servo buono e fedele. I tuoi
compagni mi hanno adorato, ma poi sono andati via. Tu invece in questi
trentatrè anni sei sempre stato con me, e nei poveri e nei sofferenti che hai
servito e onorato, hai servito e onorato me. Oggi stesso, ti dico, sarai con me
in paradiso».
Questo racconto ricapitola tutto quanto detto in
questi giorni sul cammino di santità che ha bisogno appunto di occhi, cuore,
orecchi, bocca, mani, piedi e ginocchia per pregare, adorare il Signore e per
amare gli altri. Come ha insegnato don Tonino Bello negli ultimi momenti della
sua vita, «questo è il sale della vita: amare. Amare la gente, i poveri
specialmente. E Gesù Cristo. Il resto non conta nulla».